Le rubriche
Piccola Storia della Poesia Italiana
di Mario Macioce
tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze
V parte
GIOVANNI BOCCACCIO
Qualcuno dirà: che ci azzecca, Boccaccio, con la poesia? Ci azzecca, ci azzecca!
Il poverino infatti è famoso solo per il Decamerone, opera fondamentale nella storia della prosa, ma era anche
ottimo poeta, e sfortunato, visto che lo precedevano due mostri sacri come Dante e Petrarca.
Si deve a lui il lancio di un tipo di composizione che tanto successo avrà nei secoli seguenti. Il suo
"Ninfale fiesolano" è infatti un poemetto in "ottava rima", cioè formato da strofe di
otto versi, i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata. Questa forma sarà ripresa dal Pulci,
dall'Ariosto, dal Tasso e da tanti altri.
Boccaccio nacque a Firenze o a Certaldo nel 1313. Visse alcuni anni a Napoli, dove alla pratica mercantile e
bancaria preferì gli studi letterari e le allegre brigate. Tornato a Firenze, si dedicò alla vita pubblica e alla
letteratura; scrisse opere erudite in latino e fu tra i primissimi del suo tempo, in occidente, ad apprezzare la
lingua e la cultura greca. Fu amico del Petrarca. Negli ultimi anni condusse vita povera e ritirata, anche per
la salute malferma, e morì a Certaldo nel 1375.
Il "Ninfale fiesolano" è la storia di Africo, giovane pastore innamorato, e Mensola, ninfa
consacrata a Diana e votata alla castità. Lei fugge, ma poi s'innamora e cede; infine però si pente e
abbandona Africo che disperato si uccide. Questo non placa l'ira di Diana, e anche Mensola, che nel
frattempo ha avuto un figlio, muore; i nomi resteranno a due torrenti fiorentini, in cui i loro corpi sono caduti;
il figlio sarà tra i fondatori di Fiesole, da cui avrà poi origine Firenze. Vediamo due strofe.
Ella lo vide prima ch'egli lei,
per ch'a fuggir del campo ella prendea;
Africo la sentì gridar - Omei -
e poi guardando fuggir la vedea,
e 'nfra sé disse: - Per certo costei
è Mensola - e poi dietro le correa,
e sì la priega e per nome la chiama
dicendo: - Aspetta que' che tanto t'ama!
. . . . .
La sventurata era già a mezzo l'acque,
quand'ella il piè venir men si sentia,
e quivi, sì come a Diana piacque,
Mensola in acqua allor si convertia;1
e sempre poi in quel fiume si giacque2
il nome suo, ed ancor tuttavia3
per lei quel fiume Mensola è chiamato
or v' ò del suo principio raccontato.4
1 si convertia = si mutava
2 si giacque = rimase
3 tuttavia = tuttora
4 or v' ò = ora vi ho.
Salutiamo il Trecento rendendo omaggio ad un quasi sconosciuto poeta fiorentino, schiacciato dai grandi
nomi del suo tempo, Antonio Pucci (~1310-1388). Fu autore fecondo e vario, e in questo sonetto scherzoso,
in cui se la prende con un bottegaio che l'ha imbrogliato, degno continuatore della tradizione della poesia
comica toscana (Rustico di Filippo, Cecco Angiolieri, Folgòre da S.Gimignano, etc.).
E' un sonetto "caudato", in cui cioè ai quattordici versi canonici si aggiunge una coda di uno o
più versi; in genere, come qui, un settenario che rima con l'ultimo verso del sonetto, e due endecasillabi a
rima baciata.
Andrea, tu mi vendesti per pollastra
sabato sera una vecchia gallina
ch'era degli anni più d'una trentina
stata dell'altre curatrice e mastra.1
E non fu mai sì affamato il Calastra2
che mangiato avesse tal cucina,
però ch'ella parrìa3 carne canina
e quell'omore ha in sé che ha una lastra.4
Volevasi mandare alla fornace
e tanto far bollire ogni stagione5
che ammorbidasse sua carne tenace.
Ma primamente il tegolo o 'l mattone
o calcina sarìa stata verace,
che quella mossa avesse condizione.6
Mangia'ne alcun boccone7
per fame e misi a repentaglio i denti.
Però fa tu che d'altro mi contenti.8
1 ch'era degli anni ... mastra = che era stata direttrice e maestra delle altre per più di
trent'anni
2 Calastra = famoso ingordo del tempo
3 parrìa = pareva
4 quell'omore ... lastra = ha in sé la stessa consistenza di una lastra di pietra
5 ogni stagione = per lunghissimo tempo
6 primamente ... condizione = sarebbero diventati morbidi una tegola, etc., prima che quella avesse cambiato
la sua condizione
7 Mangia'ne alcun boccone = ne mangiai qualche boccone
8 Però ... mi contenti = perciò cerca di contentarmi con qualcos'altro.
IL QUATTROCENTO
Apriamo questo secolo così come avevamo chiuso l'altro: con una poesia scherzosa.
L'autore è il Burchiello, pseudonimo di Domenico di Giovanni, fiorentino (non è colpa mia se nella letteratura
italiana dei primi secoli i fiorentini abbondano!). Visse circa fra il 1400 e il 1450, faceva il barbiere ed è
conosciuto per aver dato vita ad un genere, detto appunto "burchiellesco", fatto di frasi senza
senso, giocose e sconclusionate. ("Nominativi fritti e mappamondi, / e l'arca di Noè fra due colonne /
cantavan tutti <Chirielleisonne> / per l'influenza dei taglier mal tondi.").
In questo sonetto caudato, di cui riporto tre strofe, il Poeta parla di sé, combattuto fra il
Rasoio, il mestiere che gli dà da vivere, e la Poesia che è la sua passione.
La Poesia combatte col Rasoio
e spesso hanno per me di gran quistioni;
ella dicendo a lui: - Per che cagioni
mi cavi il mio Burchiel dello scrittoio? -1
. . . . .
Ed ella a lui: - Tu se' in grande errore:
D'un tal disio porta il suo petto caldo,
che non ha in sì vil bassezza il core. -2
Ed io: - Non più romore,
che non ci corra la secchia e 'l bacino:3
ma chi meglio mi vuol4 mi paghi il vino.
1 Per che cagioni mi cavi ... = Per quali motivi mi porti via il mio Burchiello dallo scrittoio
2 D'un tal disio ... il core = il suo petto arde di un tale desiderio (di poesia) che non ha il cuore in una così
vile meschinità (il pensiero del guadagno!)
3 Non più romore ... bacino = non più confusione, chè non ci vadano di mezzo il secchio o la catinella
4 meglio mi vuol = mi vuole più bene
E chiudiamo la puntata con Luigi Pulci, anche lui, ahimè, fiorentino (1432 - 1484), vissuto alla corte dei
Medici, poi in giro con vari incarichi e morto a Padova.
La sua opera più famosa è il "Morgante Maggiore", poema in ottava rima di argomento
cavalleresco. Riprende il tema, presente da secoli nella letteratura europea, delle gesta di Carlo Magno e dei
suoi paladini, ma in tono tutt' altro che eroico, mescolando alle vicende di Orlando ed alla sua tragica fine,
fantasie popolari, storie di giganti e di diavoli, mirabolanti avventure fra il comico e il fiabesco.
. . . . .
Morgante aveva al suo modo un palagio
fatto di frasche e di schegge e di terra;
quivi, secondo lui, si posa ad agio,
quivi la notte si rinchiude a serra.
Orlando picchia, e daràgli disagio,
per che il gigante dal sonno si sferra;
vennegli aprir come una cosa matta,
ch' un'aspra visone avea fatta.
. . . . .
Morgante aveva, a modo suo, un palazzo di frasche,
di stecchi e di terra; qui, secondo lui, si riposa
comodamente e qui si serra per la notte. Orlando bussa
e gli darà molta noia, perché il gigante si scioglie
dal sonno bruscamente (come se fosse stato
incatenato); gli venne ad aprire fuori di sé, per un
sogno sconvolgente che aveva fatto.
|