Le rubriche

Piccola Storia della Poesia Italiana

di Mario Macioce

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

I parte

Inizia la pubblicazione a puntate di questa "piccola storia ...".
Perché piccola? Prima di tutto in quanto modesta, perché fatta da un appassionato e non da un professore, e perché trascura volutamente giudizi critici e dotte citazioni, per non appesantire la lettura.
Piccola inoltre perché, non volendo fare una storia infinita (tantissimi sono i poeti italiani, tutti più o meno validi, ed enorme il numero delle loro opere) si limita a citare solo alcuni di tali autori e solo pochi brani di ciò che hanno scritto. Per fortuna quasi tutti sono morti da un pezzo e non se n' avranno a male!
D' altra parte l' alternativa, fuori luogo e superiore alle mie forze, sarebbe quella di fare una delle tante antologie scolastiche di 1000 pagine.
Questa "piccola storia ..." invece vuole essere solo una scelta di alcuni dei principali esempi di poesia italiana attraverso i secoli, inquadrati nel momento storico e letterario in cui furono scritti e presentati in modo, mi auguro, sufficientemente leggero.
Spero che qualche lettore gradisca questa veloce panoramica e che a qualche altro venga la voglia di ampliare o di approfondire su testi ben più importanti del mio.

* * *

La poesia italiana è di poco più giovane della lingua italiana, che è nata dal latino, o meglio dai linguaggi parlati derivati dal latino, e si è formata lentamente tra il IX e il XII secolo, continuando poi a svilupparsi e modificarsi nei secoli successivi.
Alle origini della poesia italiana si possono individuare due filoni principali; uno di derivazione "interna", dalle laudi e dalle poesie religiose latine, che ha dato luogo alle composizioni religiose scritte in "volgare", cioè nei dialetti parlati dal popolo; l' altro filone, di derivazione "esterna", dalla poesia provenzale in lingua "d' oc", diffusa nelle corti di buona parte d'Europa.
Esempi del primo genere sono il Cantico di Frate Sole (S. Francesco, 1224, prosa ritmica in volgare umbro) e le laudi di Iacopone da Todi, come il famoso Pianto della Madonna (seconda metà del Duecento), che trascrivo in parte perché sono molto lunghe e purtroppo non c' è spazio per riportarle interamente (invito chi fosse interessato a cercarle su qualche antologia scolastica):

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so' le laude, la gloria e l' honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,1
et nullu homo ène dignu te mentovare.2
Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual' è iorno, et allumini noi per lui.3
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.4
. . . . .

(S. Francesco)

1 se konfàno = si addicono
2 ène dignu ... = è degno di menzionarti
3 lo qual' è ... = il quale è luce del giorno e ci illumini per mezzo di lui
4 porta significatione = porta il segno

 

- Donna del paradiso - lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.
Accurre, donna, e vide - che la gente l' allide 1
credo che lo s'occide - tanto l'on 2 flagellato.
- Como esser porria - che non fece follia 3
Cristo, la speme mia, - om' l' avesse pigliato? 4
- Madonna, egli è traduto,- Juda sì l'ha venduto,
trenta denar n'ha avuto,- fatto n'ha gran mercato
. . . . . .

(Iacopone da Todi)

1 l' allide = lo percuote
2 l' on = l' hanno
3 non fece follia = non commise colpa
4 om' l'avesse pigliato = qualcuno l'avesse preso

 

Gli esempi dell' altro genere di poesia, di derivazione provenzale, vengono dalla scuola siciliana, fiorita alla corte di Federico II (prima metà del Duecento).
Si tratta di un gruppo di autori (notai, giudici, funzionari di corte, etc.), i quali trattando soprattutto argomenti "cortesi" (le belle donne, l' amore) raggiunsero alte vette di poesia.
Appartiene a questo gruppo di poeti Jacopo da Lentìni, che è considerato l'inventore della composizione più famosa della poesia italiana e più usata da allora fino ai giorni nostri: il sonetto.
Il sonetto è costituito da quattordici versi, quasi sempre endecasillabi, divisi in due quartine e due terzine, e rimati secondo schemi ben precisi.
Si tratta di una composizione di lunghezza ottimale, che nel breve arco dei quattordici versi deve racchiudere un quadretto completo, una storia finita, che nasca, si sviluppi e si concluda con naturalezza al punto giusto.
Vediamone un esempio (di Jacopo da Lentini, appunto):

Io m' agio posto in core a Dio servire
com' io potesse gire in Paradiso,
al santo loco, ch' agio audito dire,
u' si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella ch' ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudire,
estando da la mia donna diviso.
Ma non lo dico a tale intendimento
perch' io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento,
e lo bel viso e 'l morbido sguardare:
ché 'l mi teria in gran consolamento
veggendo la mia donna in gloria stare.

Io mi sono proposto di servire Dio, per poter andare in Paradiso, nel santo luogo, come ho udito dire, dove (u' dal latino ubi = dove) c' è sempre gioia, gioco e allegria. Senza la mia donna, quella che ha la testa bionda e il viso splendente, non vi vorrei andare, perché senza di lei non potrei gioire, stando diviso dalla mia donna. Ma non lo dico con l'intenzione di volerci fare peccato, ma solo vedere il suo bel portamento, il bel viso e il tenero sguardo: perché mi sentirei in grande consolazione vedendo la mia donna stare nella gloria (del Paradiso).

Ho fatto per scrupolo una versione in prosa moderna, ma il linguaggio originale è ancora, dopo tanti secoli, ben comprensibile. Le poesie della scuola siciliana ci sono note quasi sempre attraverso trascrizioni in volgare fiorentino, di poco posteriori all' epoca in cui furono scritte, e il fiorentino, grazie soprattutto a Dante, Petrarca e Boccaccio, si è affermato fin dal Trecento come il più importante dei dialetti italiani, anzi come lingua letteraria per tutta la nazione. In sei secoli, la lingua italiana ha subito consolidamenti e modifiche abbastanza modesti; tanto che, salvo per qualche parola, siamo perfettamente in grado di leggere e comprendere i grandi autori del passato.

 

Eredi della poesia d' amore della Scuola siciliana si possono considerare i poeti toscani della seconda metà del Duecento, come Guittone d'Arezzo, il lucchese Bonagiunta Orbicciani, il fiorentino Chiaro Davanzati e altri; ma preferisco rendere omaggio ad una donna, visto che nei secoli passati non sono molte le poetesse che hanno potuto diventare famose. Mi riferisco a Compiuta Donzella di cui non si hanno notizie, salvo che forse era fiorentina. Di lei è questo triste e bel sonetto:

Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
accresce gioia a tutti i fini amanti:
vanno insïeme alli giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti:

la franca gente tutta s' innamora,
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ed ogni damigella in gioi' dimora,
a me n' abbondan marrimenti e pianti.

Ché lo mio padre m' ha messa in errore,
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vole, a mia forza, signore.

Ed io di ciò non ho disio né voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l' ore:
però non mi rallegra fior né foglia.

Nella stagione in cui il mondo si riveste di foglie e fiorisce, cresce la gioia in tutti i gentili innamorati: vanno insieme ai giardini mentre gli uccelletti fanno nuovi canti: la gente libera tutta s' innamora e ognuno si fa avanti per servire (la persona amata), ed ogni fanciulla vive nella gioia, per me (invece) abbondano smarrimenti e pianti. Perché mio padre mi ha messa in affanno e mi tiene spesso in forte dolore: mi vuole dare, per forza, marito. Ed io di ciò non ho desiderio né volontà, e vivo sempre in gran tormento: perciò non mi rallegrano i fiori né le foglie (della primavera).