Le rubriche

La metrica italiana

di Mario Macioce

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 


IV parte

La rima

Abbiamo già parlato di rima nella prima parte. Due parole rimano fra di loro quando le ultime lettere dell'una e dell'altra sono tutte uguali a partire dalla vocale tonica, cioè quella su cui cade l'accento.

Esempi di rime (ho segnato gli accenti, per chiarezza): càro - amàro, giùro - scùro, barlùmi - fùmi, pèrde - vérde (che l'accento sia grave o acuto, cioè che la vocale si pronunci aperta o chiusa non fa differenza). Tutte le parole di questi esempi sono piane, hanno cioè l'accento sulla penultima sillaba, ma non è sempre così.

Farò - rondò, te - perché : ecco due rime tronche, cioè formate da parole tronche, con accento sull'ultima (o sull'unica) sillaba; in questo caso per fare uguali tutte le lettere a partire da quella accentata ... basta quella!

Più difficili sono le rime sdrucciole (accento sulla terzultima) come prèdico - mèdico, tanto che i poeti le usano poco o si concedono qualche sconto, per esempio brìvido - tìmido, che rima non è, ma ... gli somiglia!

(E' inutile dire che brìvido non fa rima con divìdo , perché gli accenti non corrispondono, anche se le lettere sono le stesse).

 

Oltre alle rime per così dire "normali", si trovano qualche volta delle rime particolari.

- Rima equivoca: parole di ugual suono, ma con significato diverso, per esempio sole (astro) e sole (aggettivo); (se invece la parola è proprio la stessa non si può parlare di rima).

- Rima composta: quando in un verso la rima abbraccia due parole; per esempio, in Dante, almen tre - mentre .

- Rima interna: tra la fine di un verso e una parola interna di un altro verso, come in Leopardi:

Odi greggi belar, muggire armenti,
gli altri augelli contenti a gara insieme

- Rima ipermetra: tra una parola piana e una sdrucciola, di cui non si considera l'ultima sillaba; es.: veccia - intrecciano (Montale)

 

Ci sono poi le ... quasi rime.

- Assonanza (o rima imperfetta): stesse vocali ma consonanti diverse, come cuore - dote .

- Consonanza: stessa finale, ma vocale tonica diversa, come velo - solo

Queste e altre figure ritmiche, secondo me, vanno bene in una poesia in versi sciolti o comunque priva di uno schema metrico regolare.

Ma se si sceglie liberamente (non ci obbliga nessuno) di fare una composizione dalle regole precise e codificate, come un sonetto, un rondò o anche solo una serie di quartine in rima, inserire una (o qualche) assonanza o consonanza più che sembrare una variante stilistica, dimostra che non si è saputo fare di meglio!

Ed è sempre preferibile, per qualunque verso mal riuscito o con una parola inadatta o con una rima sforzata, falliti tutti i tentativi di salvataggio, gettar via una rima o un verso o anche una strofa, piuttosto che sciupare l'intera poesia.

Capita spesso che belle composizioni, ricche di qualità e di idee, siano trascinate verso il basso da uno o pochi versi, non all'altezza degli altri, lasciati per pigrizia o per lo sciocco orgoglio di dire: "Mi è venuto così e va bene così!"

L'ispirazione deve, sì, essere spontanea, ma pensate a un pittore; se dopo aver avuto un'intuizione geniale e aver magari buttato giù uno schizzo, non passasse giorni e giorni a dipingere, correggere, osservare, migliorare, nessun capolavoro vedrebbe mai la luce!

 

Il modo più semplice e immediato di far rime è quello di abbinare i versi a due a due, facendone rimare uno con il seguente; esempio:

Meriggiare pallido e assorto

A

presso un rovente muro d'orto,

A

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

B

schiocchi di merli, frusci di serpi.

B

 

 

(Eugenio Montale)

 

 

 

Le lettere accanto ai versi rappresentano il tipo di rima: indicano che i primi due versi hanno la stessa terminazione e quindi rimano fra loro; così anche gli altri due rimano fra loro, ma in modo differente dai primi.

Questa rima fra versi contigui si dice " baciata ".

Attenzione: se i versi che rimano fra loro sono così vicini, l'effetto è molto forte. Poiché la moda dal Novecento tende a eliminare la rima o a relegarla in serie B (specie da parte di chi non riesce a fare rime decenti), conviene non abusare della rima baciata, soprattutto in poesie lunghe. C'è il rischio della filastrocca un po' infantile, anche se una poesia veramente bella può superare questa trappola, come dimostra " La cavalla storna " del Pascoli, tuttora molto godibile e coinvolgente. Non è prudente però sfidare Pascoli!

Altro schema di rime molto usato, in quartine o strofe più complesse, è la rima " alternata ", che si fa appunto alternando due terminazioni:

Nude, le braccia di segreti sazie,

A

A nuoto hanno del Lete svolto il fondo,

B

Adagio sciolto le veementi grazie

A

E le stanchezze onde luce fu il mondo .

B

 

 

(Giuseppe Ungaretti)

 

 

 

Al solito quelle lettere simboleggiano le terminazioni ed indicano che il primo verso rima con il terzo e il secondo con il quarto.

Un altro schema è quello della rima " incrociata "; ad esempio:

Spesso il male di vivere ho incontrato:

A

era il rivo strozzato che gorgoglia

B

era l'accartocciarsi della foglia

B

riarsa, era il cavallo stramazzato.

A

 

 

(Eugenio Montale)

 

 

 

La rima " incatenata " si ha nelle terzine dantesche (cioè con lo stesso schema usato da Dante nella Divina Commedia), come qui:

Su la riva del Serchio, a Selvapiana

A

di qua dal ponte a cui si ferma a bere

B

il barrocciaio della Garfagnana

A

 

 

da Castelvecchio menano, le sere

B

del dì di festa, il lor piccolo armento

C

 

 

molte ragazze dalle trecce nere.

B

 

 

Siedono là sul margine, col mento

C

sopra una mano, riguardando i pioppi

D

bianchi del fiume; e parlano. Ma il vento

C

. . . . .

 

 

 

 

 

(Giovanni Pascoli)

 

 

 
E' una composizione in terzine incatenate anche "Le ceneri di Gramsci" di Pier Paolo Pasolini, ma in questo caso sarebbe dura chiamarle "dantesche", perché il Poeta, forse per dare un sapore popolaresco alla sua poesia, si concede troppi sconti di metrica e di rima.

Non è di maggio questa impura aria

A

che il buio giardino straniero

B?

fa ancora più buio, o l'abbaglia

A?

 

 

con cieche schiarite ... questo cielo

B

di bave sopra gli attici giallini

C

 

 

che in semicerchi immensi fanno velo

B

 

 

alle curve del Tevere, ai turchini

C

monti del Lazio ... Spande una mortale

D

pace, disamorata come i nostri destini,

C

. . . . .

 

 

 

Ci sono poi altri schemi, che sono quasi sempre combinazioni o varianti di questi. Comunque, in fatto di rime, l'unico limite è nella fantasia (salvo nel caso di forme poetiche dalle regole precise e codificate, come il sonetto e il rondò).

C'è poi la possibilità di usare la rima ... con parsimonia, per esempio facendo strofe in cui alcuni versi rimano ed altri no, oppure inserendo rime sparse in una poesia in versi sciolti (cioè - ricordate? - veri versi in metrica, ma che non seguono un particolare schema di strofe e di rime, e che possono anche essere di lunghezza diversa).

A mio giudizio, invece, è bene non usare le rime nelle poesie in versi liberi, perché in queste, che hanno il tono discorsivo della prosa e del racconto, più o meno lirico, le rime stonano e appaiono sforzate, così come stonerebbero in un qualsiasi testo in prosa.

 

Le strofe e le forme metriche

La strofa è un raggruppamento di versi in un più ampio periodo ritmico. Se le poesie sono rimate, quello che unisce un gruppo di versi in genere è proprio il gioco delle rime.

Naturalmente la strofa più semplice è quella di due soli versi; un esempio famoso si ha ne "La cavalla storna" del Pascoli, formata da distici (cioè coppie di versi) a rima baciata.

O cavallina, cavallina storna,

A

che portavi colui che non ritorna;

A

 

 

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

B

Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

B

. . . . .

 

 

 

Strofe di tre versi sono le terzine della Divina Commedia o quelle di "Le ceneri di Gramsci" di Pasolini.

Un altro esempio di terzine incatenate è questa breve poesia di Pascoli.

Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande

A

morta, né più coi turbini tenzona.

B

La gente dice: Or vedo: era pur grande!

A

 

 

Pendono qua e là dalla corona

B

i nidietti della primavera.

C

 

 

Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

B

 

 

Ognuno loda, ognuno taglia. A sera

C

ognuno col suo grave fascio va.

D

Nell'aria, un pianto ... d'una capinera

C

 

 

 

che cerca un nido che non troverà.

D


Esempi di "quartine", cioè strofe di quattro versi si trovano in "Canzone" di Ungaretti e in "Meriggiare pallido e assorto" di Montale, citate in precedenza a proposito di rime.

Sono quartine le prime due strofe dei Sonetti e tutte le strofe dei Rondò (di cui parleremo).

Le quartine sono generalmente rimate a rima alternata (schema A B A B) o a rima incrociata (A B B A), ma possono essere rimate in parte, per esempio solo i due versi interni, oppure solo il primo e il terzo.

Sarebbe bene però, dopo avere scelto un qualunque schema di rima, mantenerlo in tutte le strofe. Cambiare schema, anche se gli autori moderni a volte lo fanno, rende la poesia un po' meno gradevole e può denotare una certa difficoltà nel far convivere il contenuto con la forma, e questo è comunque un limite.

Altri tipi di strofe più lunghe le vedremo poi parlando di composizioni.

 

La gamma entro cui spaziano le creazioni poetiche è vastissima. Si va dalle cosiddette "poesie in versi liberi", cioè prive di qualunque regola, alle forme metriche chiuse, che hanno al contrario regole molto precise; dai poemi lunghi come la Divina Commedia (oltre 14000 versi) alle illuminazioni di un verso solo (in questo caso, però, o si tratta di un'intuizione veramente geniale o è una solenne sciocchezza! Altrimenti sarebbe troppo facile essere poeti).

 

Il Sonetto

Parlando di composizioni con regole precise e definite, la più importante è senza dubbio il sonetto, sia perché è presente fin dagli albori della poesia italiana, sia perché attraverso i secoli non ha mai conosciuto crisi. E' ben rappresentato anche nel Novecento, che pure ha fatto di tutto per dissacrare la poesia.

Se ne attribuisce l'ideazione a Iacopo da Lentini, poeta siciliano del Milleduecento, ed è un'apparizione significativa e singolare, perché pur derivando da forme poetiche popolari o da composizioni provenzali in lingua d'oc, ha caratteristiche nuove, che vengono subito accettate e diffuse, e non sono più variate in otto secoli (a parte qualche tentativo di . . . svalutazione nel Novecento).

Il sonetto è formato obbligatoriamente da due quartine e da due terzine rimate. È giusto parlare di obbligo, perché la libertà del poeta è a monte, nella scelta di fare o di non fare il sonetto, visto che non lo ordina il dottore! Leopardi per esempio non ne ha fatti quasi mai.

Chi sceglie di fare un sonetto deve sapere che le due quartine rimano fra loro con le stesse rime (non diverse tra prima e seconda strofa); possono essere rime alternate (A B A B) (A B A B) oppure incrociate (A B B A) (A B B A), come in questa poesia di Umberto Saba (“Zaccaria”):

La vacca, l'asinello, la manzetta
al bimbo avvolto in scompagnati panni
erano stufa nell'inverno; i danni
ristorava dei morbi una capretta.

La sua mamma, che pace in cielo aspetta,
sei gli dava nel giro di dieci anni,
sei fratellini; pur, fra pianti e affanni,
due volte il dì fumava la casetta.

Là crebbe; e come sognava bambino,
poco ai campi lo vide il paesello.
Volle d'agricoltor farsi operaio.

Or – tra gli altri feriti – il tempo gaio
della pace ricorda; sul cappello
ha una penna: l'orgoglio dell'alpino.

Per completezza aggiungo che, di rado, si incontrano due varianti di quegli schemi, ottenute con uno scambio nella seconda strofa, e cioè rispettivamente: (A B A B) (B A B A) e (A B B A) (B A A B).

 

Più possibilità ci sono nelle terzine, dove, in una ricerca fatta su circa venti tra antologie e vari testi, ho potuto trovare una decina di schemi:

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E

C

I primi due schemi sono i più antichi, usati già da Iacopo da Lentini e poi sempre presenti dal XIII al XX secolo. Il 3 e il 4 sono un po' meno comuni, ma si trovano in Dante, in Petrarca e in molti altri poeti nei secoli seguenti. Il 5, il 6 e il 7 sono ancor meno comuni, ma sono stati usati già da Petrarca. L'8 e il 9 li ho trovati solo in epoche più recenti, rispettivamente dal Cinquecento e dall'Ottocento (tutti e due sono stati usati dal Foscolo). Il 10 infine l'ho citato, pur avendolo trovato solo in un autore del Novecento, sia perché è uno schema regolare, sia perché l'autore è Lucini, che, con Sanguineti e qualche altro, è uno dei "vati" del verso libero (ma evidentemente non solo!).

Altri schemi non li ho considerati, in quanto irregolari e rarissimi, o presenti in sonetti con varie licenze di metrica e di rima.

C'è dunque poca scelta per le quartine, mentre le varianti per le terzine sono più numerose; e mi pare giusto, perché chi ha già sofferto per trovare delle buone rime nei primi otto versi, deve avere una certa facilità di arrivare in fondo, senza rimanere bloccato sul più bello!

Non dimentichiamo mai che per fare una poesia in rima, bisogna trovare delle buone rime, non delle rime purchessia, altrimenti si dà ragione a quelli che la rima la odiano (e la temono).

Il verso del sonetto è l'endecasillabo. Si può usare, magari per prova, un verso differente, sapendo però che, a fronte di milioni di sonetti in endecasillabi, nella storia della poesia quelli in settenari o in novenari o in altri versi si contano sulla punta delle dita.

 

Il sonetto, composizione italiana "DOC", è stato imitato nelle letterature straniere, in inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, russo, per esempio ad opera di Shakespeare, Baudelaire, Mallarmé, Borges, Machado e tanti altri. Poiché la metrica è strettamente legata alle caratteristiche lessicali e fonetiche di ciascuna lingua, gli schemi di rime in questi sonetti "stranieri" possono essere diversi e talvolta semplificati.

 

Una caratteristica importante del sonetto è racchiudere tutto quel che si vuol dire nell'arco di quattordici versi, non di più e non di meno, possibilmente con naturalezza, senza sforzarsi ad allungare o a stringere!

A dire il vero, se quattordici versi sono pochi, c'è una possibilità, e specialmente nei primi secoli della poesia italiana se n'è fatto un certo uso, soprattutto in composizioni scherzose: il sonetto caudato (ovvero con la coda); si aggiungono cioè uno o più versi (o perfino più terzine) in fondo al sonetto.

La forma maggiormente usata di sonetto caudato è la cosiddetta "sonettessa" che ha tre versi in più: un settenario che rima con l'ultimo verso del sonetto vero e proprio, seguito da due endecasillabi a rima baciata.

(Due esempi di sonetti caudati sono nella 5a parte della rubrica "Piccola storia della poesia italiana", presente in questo sito).