Le rubricheIl Dolce Stile Eterno
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VI parte |
VI parte
CARLO BETOCCHI - Ricordo un pomeriggio ventoso di fine Ottobre una diecina di anni fa. Camminavo sui Lungarni di
sinistra, tra il Ponte Vecchio e il Ponte alle Grazie, e carte di ogni genere mi mulinellavano tra le gambe. I miei occhi si fermarono
su una vecchia busta affrancata con un francobollo da tempo fuori corso, la raccolsi e vidi che era indirizzata all'Editore Vallecchi
di Firenze, mittente Carlo Betocchi, da Roma. Mi emozionò un po' quella scoperta, ma molto più intensa fu l'emozione qualche
attimo dopo quando mi accorsi che tra le carte sparpagliate dal vento c'era anche la lettera contenuta in detta busta.
Come acceso da un'improvvisa frenesia cominciai a frugare tra i fogli e trovai altri frammenti di quella corrispondenza, spesso
lettere manoscritte che la pioggia caduta il giorno avanti aveva in parte scolorito. Adesso le conservo come preziose relique
dentro una busta di plastica. Ma il tempo ha già stabilito che anche CARLO BETOCCHI, a dieci anni dalla sua morte, è ormai un
peso inconsistente nella storia della poesia italiana.
Era nato a Torino nel 1899, ma può essere considerato "fiorentino" a tutti gli effetti, perché a Torino rimase solo pochi
anni e la famiglia si trasferì presto a Firenze, dove praticamente ha vissuto tutta la vita, salvo la parentesi del decennio romano,
dal '41 al '51. Tra i premi prestigiosi ricordiamo il "Viareggio" nel 1955. Come dicevo il tempo ha molto scolorito
l'opera poetica di Betocchi (che per me non è mai apparsa di quel livello tanto osannato dalla critica degli anni '50 e '60) ma per
noi, allora giovani artisti fiorentini, Betocchi negli anni '70 rappresentava un mito. Lo si incontrava spesso per le strade del centro,
o nello storico "Caffè Le Giubbe Rosse". L'ultima volta che lo vidi fu un incontro inaspettato tra gli ospiti di una casa di
riposo dove, con l'allora mio gruppo teatrale, avevamo portato l'allegria di uno spettacolo musicale. Parlammo un po' di poesie e
un po' di teatro, ma già dava evidenti segni di squilibrio mentale. Era la metà degli anni '80 e qualche tempo dopo i parenti furono
costretti a trasferirlo in una più idonea casa di cura dove visse ancora un paio di anni. Il suo percorso letterario si è trovato ad
attraversare l'età dell'ermetismo ed "ermetico" volle spesso riconoscersi anche lui, specialmente nelle poesie degli
anni '30 (Realtà vince il sogno) confluite poi nella più ampia raccolta intitolata semplicemente "Poesie" che gli valse il
"Viareggio del '55". Fino ad allora, pur avendo abbracciato la moda dell'ermetismo, era rimasto abbastanza fedele alla
poesia in metrica e ai giochi delle rime, dopo cominciò a perdersi in troppi versi e, a mio avviso, a ingrigire tutta la sua
produzione. Sono perciò del primo periodo i 2 testi che seguono:
Io arrivai in una piazza
colma di una cosa sovrana,
una bellissima fontana
e intorno un'allegria pazza.
Stava tra verdi aiole;
per viali di ghiaie fini
giocondavano bei bambini
e donne sedute al sole.
Verde il labbro di pietra
e il ridente labbro dell'acqua
fermo sulla riviera stracca,
in puro cielo s'invetra.
Tutto il resto è una bruna
ombra, sotto le logge invase
dal cielo rosso, l'alte case
sui tetti attendon la luna.
Prima che l'alba sfarfalli
dentro un suono di sonagliere
l'ultimo carro a cavalli
passa, al grido del carrettiere.
Terribilmente giocondo
è questo suon di sonagliere
squillante nel buio mondo
al grido, aiuh! del carrettiere.
Sveglia chi deve svegliare,
il can del giardino di rose,
il gallo che sa cantare,
le lavandaie, belle spose.
Entrando nella farina
sveglia il pane, fin dentro il forno,
squillasse in campi di brina,
di pane riempirebbe il mondo.
Passando a una casa gialla
che l'uomo dice inabitata
turba un'occulta farfalla
dentro un solaio addormentata.
Va il suo cavallo mancino
con una zampa chiotta chiotta;
sopra il lastrico, argentino,
il cavallo manritto schiocca.
L'ultimo carro a cavalli
passa al grido del carrettiere,
con strepitosi sonagli,
avanti l'alba, in strade nere.
Carlo Betocchi
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