Le rubriche

Presenze femminili nella Divina Commedia

di Gioia Guarducci

tratto da L'Alfiere, rivista letteraria della "Accademia V.Alfieri" di Firenze

 

I parte II parte III parte

II parte

Purgatorio

Nel Purgatorio, in un paesaggio prettamente terrestre, Dante si imbatte in molti vecchi amici di gioventù, ricorda i tempi di Firenze prima dell’esilio e il cuore gli si riempie di nostalgia e di rammarico.
Tra coloro che espiano in questo luogo le loro colpe prima di salire in Paradiso,dante non pone molte donne, ma vengono proposti numerosi personaggi femminili tratti o dalla storia o dal mito, come esempi sia virtù che di colpa.
Nel primo canto troviamo Virgilio che, mentre supplica Catone di lasciarli passare, ricorda, al severo custode del Purgatorio, l’affetto della sua sposa Marzia, che si trova tra le anime del limbo.

“Non son gli editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son gli occhi casti
di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amor adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”.
“Marzia piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.”

(Purg. I, vv.78-90)

Con la connotazione degli “occhi casti”e della richiesta che la consideri sempre sua moglie (“che per tua la tegni”), Dante fa di Marzia l’esempio di moglie fedele. Il poeta non ha voluto tener conto della verità storica, che ci dice come Catone l’Uticense, dopo aver sposato Marzia, la cedette a Quinto Ortensio e che, solo dopo la morte di quest’ultimo, la riprese con sé.

Nel terzo canto, Manfredi, presentatosi come nipote di Costanza d’Altavilla ( anima che ritroveremo tra i beati nel III canto del Paradiso), prega Dante affinché, una volta tornato nel mondo dei viventi, riferisca a sua figlia (anch’essa di nome Costanza, che egli afferma essere “bella” e “buona”), che lui, nonostante la scomunica, si è salvato dall’Inferno e che attende di poter scontare le sue colpe nel Purgatorio.

Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.”

(Purg.III, vv.112-117)

e poco dopo aggiunge :

“Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza”.

( Purg. III vv.142-145)

Nel V canto del Purgatorio è ricordata con biasimo Giovanna, sposa di Bonconte da Montefeltro, che chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere, perché sua moglie non lo ricorda più:

“Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non han di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte”.


( Purg. V, vv.88-90)

Nel canto V le anime si presentano dicendo di sé:

“Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati…”


( Purg. V, versi 52-57)

Tra loro si trova la mesta figura di Pia de’ Tolomei, un personaggio storicamente vissuto tra la fine del 1200 e i primi anni del secolo successivo.
Ella apparteneva alla famiglia dei Tolomei di Siena. Andata sposa a Nello de’ Pannocchieschi, podestà di Volterra e di Lucca, fu assassinata dal marito, che la fece precipitare da un balcone del castello della Pietra in Maremma. (Oggi le rovine di questo castello vengono ancora indicate come “il salto della Contessa”.).

C’è chi dice che sia stata uccisa perché colpevole di infedeltà, chi invece sostiene che il marito se ne liberò per potersi risposare. Ci sono molte notizie infatti di una relazione e di un successivo matrimonio di Nello con una donna “dai molti mariti e dai molti amanti”: Margherita degli Aldobrandeschi.

Il mistero della morte di Pia rimane fitto oggi come allora.

“ Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via
- seguitò 'l terzo spirito al secondo -
ricorditi di me che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma” *


(Purg., V, vv.130-136)

* lo sa bene colui che, dopo avermi inanellata con la sua gemma, mi ha sposata. oppure come interpreta Natalino Sapegno, seguendo un anonimo commentatore fiorentino antico,: "come sa bene colui che mi fece morire e che prima mi aveva dato l'anello e sposata".

Dante prova per questa giovane affetto e commiserazione, infatti ce la presenta come una donna quieta piena di sollecitudine e di dolcezza, priva di qualunque risentimento verso il marito.

Nell'ottavo canto Dante incontra un caro amico, il giudice Nino Visconti, che ricorda con grande affetto la figlia Giovanna e dà invece di Beatrice d'Este, la sua vedova, passata assai presto a nuove nozze, un giudizio assai duro:

“Quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde.
Non credo che la sua madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera, ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura."


(Purg. VIII, vv. 70-78)

Dante qui mostra di credere che Beatrice d'Este fosse colpevole di infedeltà alla memoria del marito, ma in realtà nel medio evo le donne non potevano disporre di se stesse, e i loro matrimoni erano oggetto di scambi politici, in nome del benessere familiare.

A quei tempi, comunque, le seconde nozze delle spose erano mal viste dall'opinione pubblica e le loro infedeltà, quando i mariti erano lontani, erano un luogo comune diffusissimo.

Nelle parole di Nino Visconti (e quindi in Dante stesso) vi è un’eco del pregiudizio medievale contro le donne, secondo una tradizione letteraria che risale ai classici, Ovidio, Virgilio ecc. e ai Padri della Chiesa.

Può darsi anche che il Sommo Poeta, pensasse alla propria moglie Gemma, che non lo aveva seguito nell'esilio, neanche quando i suoi figli stessi lo avevano raggiunto.

Nel canto successivo si affaccia Lucia (la santa di Siracusa), la quale, per facilitargli la salita, prende tra le braccia Dante addormentato, e lo porta all’ingresso del Purgatorio.

 Virgilio racconta a Dante:

Venne una donna e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre gentil forme;
ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella entrata aperta;
poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro”.

 (Purg. IX vv. 55-63)

Nel canto X Dante, mentre sale, vede scolpiti in altorilievo, nella parete del monte di marmo bianco, esempi di umiltà.

Il primo di questi rappresenta la Madonna che riceve l'annunzio dall'Angelo che pare dica “Ave!”, mentre Maria che sembra dire: "Ecco la serva di Dio":

"Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”,
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Dei”, propriamente
come figura in cera si suggella."

(Purg. X vv.40-45)

Dopo appare il re David, che danza intorno all'Arca dell'Alleanza, mentre ad una finestra del palazzo reale appare Micol, la moglie, che è rappresentata irritata per l'eccessiva umiltà del marito.

"Di contra, effigiata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista."


(Purg. X vv.67-69)

Più avanti troviamo scolpita la storia di Traiano e della vedova che gli chiede giustizia. La vedova è descritta come una donna chiusa nel suo dolore ma dotata di un forte senso di giustizia e di una lucida capacità di obiezione.

" ’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
pareva dir:: “Segnor, fammi vendetta
di mio figliol ch’è morto, ond’io m’accoro”;
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta
tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
come persona in cui dolor s’affretta,
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’io,
la ti farà”; ed ella. “L’altrui bene
a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?
ond’elli : “Or ti conforta; ch’ei conviene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritiene”."


(Purg. X vv.76-93)

Nel XII canto, tra gli esempi di superbia punita intagliati nella pietra del sentiero che sale verso la vetta del Purgatorio, Dante vede raffigurate due eroine della mitologia classica: Niobe e Aracne.

"O Niobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti."
(Purg. XII, vv.37-39)
"O folle Aragne,sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su gli stracci
de l'opera che mal per te si fé."


(Purg. XII, vv. 43-45)

Niobe, moglie del re di Argo, superba per la numerosa prole (sette maschi e sette femmine) schernì la dea Latona, madre di soli due figli Apollo e Diana, e per questo fu da lei punita con l'uccisione di tutti i suoi figli.
Aracne, abile e superba tessitrice della Lidia, avendo sfidato la dea Atena nell'arte del tessere, fu da questa tramutata in ragno (Aragne = Aracne, nome che in greco significa "ragno").

Successivamente saliamo al girone dove sono puniti gli invidiosi, coloro cioè che furono più lieti del danno degli altri che della propria fortuna.
Questi penitenti, vestiti con mantelli dal colore livido della pietra , addossati l’uno accanto all’altro alla parete rocciosa e con gli occhi cuciti col fil di ferro, sono paragonati ai mendicanti ciechi che sostano alle porte delle chiese.

Mentre il Poeta cammina si sentono voci aeree che gridano esempi di carità, che incitano il buon cristiano non solo a non invidiare il suo prossimo, ma anzi ad amarlo.
 
Il primo esempio ricorda il gesto di Maria alle nozze di Cana, allorché piena di sollecitudine verso i giovani sposi, disse "Non hanno più vino" e invitò il Figlio a compiere il primo miracolo.

"E verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d’amor cortesi inviti.
La prima voce che passò volando
“Vinum non habent” altamente disse,
e dietro a noi l’andò reiterando."


(Purg. XIII vv.25-30)

Mentre avanza sul sentiero di livida pietra, Dante vede un'ombra, che alza il mento in su come fanno i ciechi, e le chiede di farsi riconoscere.

Tra l’altre vidi un’ombra ch’ aspettava
in vista; e se volesse alcun dir “Come?”,
lo mento a guisa d’orbo in sù levava.
“Spirto” diss’io “che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome”.
"Io fui sanese"- rispuose- "e con questi
altri rimondo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti. *
Savia non fui, avvegna che Sapìa *
Fussi chiamata, e fui de l'altrui danni
più lieta assai che di ventura mia"

(Purg. XIII, vv. 100-110)

* rimondo…= purifico la vita empia
lagrimando…= supplicando con lacrime affinché Dio (Colui) conceda se stesso a noi
*avvegna che Sapìa…= sebbene il mio nome fosse Sapìa,(nome che ha la medesima radice di "savia" e di "sapere").


Sapia, della famiglia senese Salvani, era zia di quel Provenzano, che aveva sperato di diventare Signore di Siena e che, per questa sua presunzione, Dante ha posto tra i Superbi (vedi il Canto XI del Purgatorio). Ella fu sposa di Ghinibaldo di Saracino, signore di Castiglioncello, presso Monteriggioni.
Ai piedi di questo luogo, sulla via francigena, insieme al marito, Sapia aveva fatto costruire l’ospizio di Santa Maria per i pellegrini che si recavano a Roma e nei Luoghi santi.

Di lei non si sa molto, eccetto che prese parte alle lotte politiche e che, come essa stessa dice, assistette compiaciuta ( non si sa bene perché) alla sconfitta, ad opera dei Guelfi di Firenze, dei suoi concittadini, guidati dal suo stesso nipote Provenzano Salvani, nella battaglia di Colle Val d'Elsa nel 1269.

“ Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari
ed io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti fuor quivi e volti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispàri*,
tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fe’ ‘l merlo per poca bonaccia.”*


( Purg. XIII, vv.115-123)

* dispàri= diversa

*come fe’ il merlo…= riferimento ad una favola popolare che dice come il merlo, dopo un periodo freddo, per pochi giorni di sole, credendo finita la cattiva stagione, cantasse al Signore “ Non ti temo più, perché è finito l’inverno!”.

 Dalle sue parole Sapia sembra pentita per aver partecipato con tanto odio alle lotte fratricide e appare grata al vecchio Pier Pettinaio, che con le sue sante preghiere le ha abbreviato il tempo da trascorrere nell'Antipurgatorio.
Sul finire del suo lungo discorso, quest'anima chiede che Dante, tornato sulla terra, la riabiliti presso i suoi parenti.

“E chèggioti* per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui* tu ben mi rinfami*.
Tu li vedrai tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;
ma più vi perderanno gli ammiragli”.


( Purg. XIII, vv.148-154)

*cheggioti= ti chiedo;
 propinqui= concittadini;
 rinfami= mi ridia buona fama


Qui, però, si vede in lei ancora una pepata vena canzonatoria verso i suoi concittadini, definiti “gente vana”, perché sperano in imprese senza costrutto, ) sperperando i loro averi.
Si diceva infatti che il borgo di Talamone sull’Argentario fosse stato acquistato dai Senesi per farne uno sbocco al mare, ma, essendo il luogo  malarico, nonostante le ingenti spese essi non ne ricavassero niente.
La Diana era un mitico fiume, che i Senesi credevano scorresse sotto la città, ma ma le lunghe e dispendiose ricerche non approdarono a niente.

Negli ultimi versi del canto successivo, il poeta ode voci  che gridano esempi di invidia punita. Viene ricordata Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, che invidiosa della sorella, aveva cercato di impedirne l’amore col dio Mercurio, e che da questi fu per punizione tramutata in pietra.

“Io son Aglauro che divenni sasso” ( Purg. XIV,v. 139)

Nel canto XV, i due poeti arrivano alla terza cornice , qui Dante ha la visione di esempi di mansuetudine. il primo esempio narra di Maria che con Giuseppe ritrova Gesù nel tempio tra i dottori.

"Ivi mi parve in una visione
estatica di subito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: “Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo”. E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, disparío."


(Purg., XV,vv.85-93)

Nella seconda visione di mansuetudine, si contrappone la mansueta risposta di Pisistrato alla moglie , di cui condanna l’atteggiamento altero e vendicativo. Essa infatti  chiedeva di punire duramente l’affronto subito dalla figlia, baciata in pubblico da un giovane ateniese innamorato di lei.

"Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ‘l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: “Se tu se’ sire della villa
del cui nome ne’ deèi fu tanta lite,
e onde ogne scienza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto”.
E ‘l segnor mi parea benigno e mite
risponder lei con viso temperato:
“Che farem noi a chi mal ne desira,
se quei che ci ama è per noi condannato?”."

(Purg., XV,vv.94-105)

Nel XVI canto Dante chiede a Marco Lombardo chi sia quel buon Gherardo che egli ha nominato quale esempio di saggezza in un secolo privo ormai di valori cavallereschi, e ne ha per risposta che lo può identificare dalla figlia Gaia.

“Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso della gente spenta,
in rimprovero del secolo selvaggio?”.
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,
rispuose a me; “ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco*.”

(Purg., XV,vv.133-141)

*vosco=con voi

Questa Gaia era figlia di Gherardo da Camino, capitano generale di Treviso, protettore di artisti e letterati, di cui si sa solamente che fu moglie di Tolberto da Camino e che morì nel 1311.
Per alcuni commentatori fu esempio di virtù, per altri invece di impudicizia; in questo caso l’accenno di Dante sarebbe ironico e fatto solo per contrapporre i sani costumi dell’antichità a quelli corrotti dell’età nuova.

Proseguendo la lettura della seconda cantica del poema, troviamo al canto diciassettesimo due figure mitologiche femminili che Dante ci offre come esempi di ira punita. Esse sono:

Progne, sposa dell’eroe greco Teseo, la quale uccise il figlio Iti e ne diede in pasto le carni al marito, per punirlo d’aver violentato la sorella Filomena, e che per questo fu trasformata in usignuolo.

De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta.


(Purg, XVII, vv19-21)

e la regina Amata, moglie del re Latino, che credendo improrogabili le nozze di sua figlia Lavinia con lo straniero Enea, furiosa si tolse la vita, impiccandosi ad una trave:

"Surse in mia visione una fanciulla
piangendo forte e dicea: “O regina
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa* t’hai per non perder Lavinia;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto*,
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina”."

(Purg, XVII, vv.34-39)

* ancisa= uccisa;
* lutto= faccio lutto.

Nel XVIII canto al verso 100, ancora Maria, la Madonna, è riproposta come esempio di sollecitudine, quando volle recarsi ad assistere la cugina Elisabetta, che doveva partorire:

“Maria corse con fretta alla montagna”


Nel canto successivo, Dante sogna una femmina deforme (una Sirena), che diviene a un tratto bellissima e inizia a cantare con voce dolce, ma presto le si affianca una santa donna che, dopo aver sgridato Virgilio per aver lasciato che Dante ascoltasse senza proseguire la sua strada, strappa le vesti all’adescatrice mostrandone il ventre putrido, il cui odore fetido risveglia il Poeta.

Mi venne in sogno una femmina balba*,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di color scialba.

(Purg, XIX, vv.7-9)

*balba=balbuziente

"Poi ch’ella avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar, sì che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
“Io son – cantava - io son dolce Serèna,
che ‘marinai in mezzo mar dismago*;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa*,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”.
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta*
lunghesso me per far colei confusa.
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”,
fieramaente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quell’onesta.
L’altra prendéa e dinanzi l’aprìa,
fendendo i drappi, e mostravami ‘l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscía."


(Purg. XIX vv:16-33)

* dismago= incanto ;
* s’ausa= si abitua;
* presta= premurosa.

Virgilio spiega la visione , dicendo:

“Vedesti – disse – quell’antica strega
che sola sovr’a noi omai si piagne*,
vedesti come l’uom da lei si slega.


(Purg. XIX vv:58-60)

*si piagne= per la quale si scontano le pene nei tre gironi del Purgatorio che ci sovrastano;
* si slega= si libera

Il sogno vuole esprimere la difficoltà del distacco dagli allettanti beni materiali (il soave canto della Sirena) e la necessità della Grazia spirituale (la santa donna)che ne sveli il marcio e la bruttezza nascosta.

Alla fine di questo canto, Il Poeta incontra papa Adriano, al quale chiede si se vuole qualcosa dai vivi, ma il Papa risponde che a pregare per lui non gli è rimasta che la buona nipote Alagia, per la quale teme la vicinanza corrotta della famiglia.

“Nepote ho io di là ch’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro* malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa”.

(Purg.XIX, vv.142 –145)

Questa Alagia Fieschi, moglie di Moroello Malaspina, ebbe fama di donna virtuosa e fu conosciuta personalmente da Dante durante la sua permanenza nel castello dei Malaspina in Lunigiana.

Nel XX canto (versi 19-24), i due poeti sentono un’anima narrare esempi di povertà; primo tra gli altri è quello di Maria, che partorì il Bambino in una povera stalla.

"e per ventura udi’ : ”Dolce Maria!”
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: “Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti* il tuo portato santo”. "


*sponesti= deponesti

Come esempio di avarizia punita (al verso112 di questo stesso canto), Dante ricorda, tratta dalle Sacre Scritture, la figura di Saffira (“indi accusiam col marito Saffira”). Ella e il marito Anania vendettero un podere e invece di consegnare l’intero ricavato agli Apostoli, ne trattennero una parte; smascherati da San Pietro, negarono tutto, ma vennero fulminati da Dio.

Nel canto XXII ( versi 109-114), Virgilio nomina alcune eroine greche, che dice son con lui nel Limbo. Esse sono:
Antigone, Deifile, Argia, Ismene, Isifile, Teti, Deidamia e la figlia di Tiresia, la maga Manto. Qui però il poeta è caduto in contraddizione, perché Manto si troverà poi all'Inferno, nella bolgia degli indovini (Inf. XX, vv. 52-56)

Di nuovo la Vergine Maria è citata come esempio di temperanza negli ultimi versi del XXII canto, quando i due poeti si avvicinano ad uno strano albero dai frutti profumati, che ha rami e tronco che digradano all’ingiù, contrario dell’abete.
Dal folto delle fronde, sentono provenire una voce che ricorda loro come Maria alle nozze di Cana si preoccupasse più alla buona riuscita della festa nuziale che di soddisfare la sua bocca (il suo appetito) e dice che con quella bocca ora Ella intercede per le anime del Purgatorio.
Vi è dopo anche un breve accenno alla sobrietà delle antiche donne romane.

"Li due poeti all’alber s’appressaro
e una voce per entro le fronde
gridò: “Di questo cibo avrete caro*”.
Poi disse: “Più pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli* e intere,
ch’a la sua bocca,ch’or per voi risponde.
E le Romane antiche, per lor ber,
contente furon d’acqua;.............."

Purg., XXII,vv.139-146)

*caro= carestia
* orrevoli=onorevoli


Nel XXIII Canto, vengono incontro anime terribilmente magre, il cui aspetto rinsecchito fa venire alla mente a Dante quello degli Ebrei dopo il lungo assedio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito. Allora, per la fame, narrava lo storico Giuseppe Flavio, una donna Maria di Eleazaro divorò bestialmente il suo stesso bambino:

"Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco*!”."

(Purg., XXIII,vv.28-30)

*diè di becco= divorò col becco come un uccello rapace

Tra di loro,( i golosi puniti con la pena del contrappasso), Dante incontra l’amico Forese Donati, morto circa cinque anni prima. Dante gli chiede come è possibile che non sia ancora nell’Antipurgatorio, come coloro che hanno atteso per pentirsi fino al termine della vita.

Forese risponde che è per merito delle lacrime e delle preghiere di sua moglie Nella, unica donna onesta in mezzo alle corrotte donne di Firenze e scaglia una forte invettiva contro la moda femminile del suo tempo:


“Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto
a ber lo dolce assenzio d’i martìri
la Nella mia col suo pianger dirotto,
coi suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia,che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo* interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline*?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna*,
già per urlar avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder* qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.*

(Purg. XXIII vv. 85-111)
 
*
pergamo= pulpito ;
*spirital o altre disciplinei=o pene date dalle autorità religiose o pene date da autorità civili;
*ammanna= prepara;
*antiveder=prevedere;
*Prima fien ....con nanna= saranno addolorate prima che metta la barba il bimbo, che ora si consola con la ninna- nanna.


Nel canto successivo il poeta chiede all’amico dove sia la sua buona sorella Piccarda e Forese risponde che ella è già tra i beati:

“Ma dimmi se tu sai dov’è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda”.
“La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona”.

(Purg.XXIV,vv.9-15)


Vi è poi subito dopo l’incontro con il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani, che dà modo a Dante di discutere di poesia e di definire il Nuovo Stile. Prima del colloquio Bonagiunta mormora il nome Gentucca e dichiara che questa sarà una donna gentile che gli farà apprezzare la città di Lucca.

“El mormorava; e non so che “Gentucca”
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga*
de la giustizia che sì li pilucca.
“O anima”, diss’io, “che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga”.
“Femmina è nata e non porta ancor benda*”
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.*
Tu te n’andrai con questo antivedere*;
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere*.”

(Purg.XXIV,vv.37-48)

*ov’el sentia la piaga= dove egli sentiva lo strazio della fame;
*benda= velo delle donne maritate;
*come... riprenda= sebbene se ne parli male ;
*antivedere= profezia;
*se nel mio...vere= se ti hanno indotto in errore le mie parole, le cose reali poi ti chiariranno quanto ho detto.

Nel canto XXV, i due poeti salgono una scala che li conduce alla settima cornice, dove in una cortina di fuoco avanzano i lussuriosi, che alternano un inno sacro ad esempi di castità.

“Appresso al fine ch’a quell’inno fassi,
gridavano alto: “Virum non cognosco”,
indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: “Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tosco”.
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.”

(Purg.XXV,vv.127-135)

Il primo esempio di castità è quello di Maria che all’Angelo annunziante la nascita di Gesù rispose di non conoscere uomo;
il secondo esempio riporta il mito della dea Diana, che allontana la ninfa Elice, poiché aveva conosciuto il veleno (tosco= tossico) dell’amore (Venere);
l’ultimo è l’amore di donne e uomini che vivono castamente il sacramento del matrimonio.


Nel XXVII canto,infine, Dante e Virgilio salgono la scala che porta al Paradiso Terrestre. Qui il poeta latino dice che sono giunti dove la ragione umana (cioè lui stesso) non potrà più fare da guida:

"…e se' venuto in parte
dov' io per me più oltre non discerno"

(Purg, XXVII vv.124-125)

e aggiunge che Dante dovrà attendere

" mentre che vegnan lieti gli occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno" *


(Purg.XXVII, vv.136-137)

* cioè: i lieti begli occhi di Beatrice, la quale, piangendo, aveva spinto Virgilio ad andare in aiuto di Dante. ( II canto dell'Inferno) .

Nel Paradiso Terrestre si incontrano due figure di donna: Matelda e Beatrice, le quali lo guideranno nel cammino verso il Paradiso.

La prima, Matelda, è una sorridente giovane (“bella donna”) che canta raccogliendo fiori.
E' lei che dopo aver fatto immergere Dante nel fiume Leté, perché si purifichi e dimentichi anche il ricordo del peccato, lo fa bere alla sorgente dell’Eunoé, in modo che quell’acqua lo rafforzi nelle virtù.

I commentatori hanno cercato di ravvisare in lei qualche personaggio storico, chi l’ha identificata con Matilde di Canossa, chi con la “donna gentile” citata altrove, altri con una delle donne nella “Vita Nova”, altri ancora con la monaca benedettina Matilde di Hachenborn o con Matilde di Magdeburgo, autrici entrambe di scritti spirituali.

Il mistero resta, ma con tutta probabilità Matelda è solo il simbolo della Grazia Divina, infatti Beatrice, nel XXXIII canto dice di lei che è “usa”, cioè abituata, a purificare le anime che salgono dal Purgatorio al Paradiso.

Nel XXX Canto, a coronamento del viaggio spirituale verso l’alto, c’è finalmente l’incontro con Beatrice, che non è più la Bice Portinari, fanciulla amata del poeta, ma, pur nella conservazione dei lineamenti umani della giovinetta conosciuta da Dante, è divenuta ormai la rappresentazione tangibile della Teologia, della Verità rivelata.
Essa è la messaggera di Dio, che deve guidare il poeta all’interno dei cieli del Paradiso.
 

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