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DOVE VA LA POESIA?di Gioia Guarduccida "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere del gennaio 2020Dopo l’Idealismo che, contro l’ottica Verista, riportava tutta l’Arte a sentimento e ad intuizione lirica, si è avuta nell’appena trascorso Novecento una cultura poetica che, pur seguendo strade diverse, ha ridotto la Poesia a mera confessione dei propri stati d’animo. Ciò che colpisce di più è stata la preponderanza dell’ “Io”, l'introspezione psicologica e l'esplorazione quasi ossessiva di sé, delle proprie sensazioni, alla ricerca delle origini dell'inquietudine e della sofferenza. Il predominio del subconscio, dell'irrazionale, del sogno su tutto ciò che è realtà, ha portato ad una frattura tra poesia e storia civile. In un impulso quasi rivoluzionario sono stati rigettati i grandi ideali romantici e, in nome di una malintesa libertà, è stata rifiutata anche l’architettura metrica tradizionale, considerata un abbellimento retorico e di facciata. Si è visto il poeta ricercare, sulle orme della critica Crociana, l’intuizione pura, lo squarcio lirico, il frammento perfetto, che concentrasse in un solo punto tutta la verità dell’esistere, ma questo ha ridotto la poesia a una misura estremamente breve, spezzata, frammentaria ed ha distrutto ogni strumento offerto dalla logica e dal senso comune. In queste nuove esperienze si sono confusi elementi poetici e prosastici nell’ambizione di giungere ad una poesia libera, non ponderata né riflessa, ma scaturita di getto dall’intimo e perciò ritenuta più vera e più aderente al suono intimo dell’ “Io” interiore. Non è possibile dire, comunque, che la lirica dei grandi poeti del Novecento, pur esprimendosi in forme più libere e più nuove, abbia dimenticato gli insegnamenti del passato. La misura metrica non è del tutto disconosciuta. L’uso, però, che se ne fa è lontano dalle più chiuse costruzioni della tradizione classica. Soltanto alcuni autori minori, subendo il fascino del verso libero, introdotto dall'americano Whitman o dalla poesia di autori stranieri, in realtà conosciuta soltanto attraverso traduzioni prosastiche, hanno ritenuto di poter fare assolutamente a meno della misura metrica per scrivere a ruota libera, con il solo vincolo di spezzare di tanto in tanto la frase, andando inconsultamente a capo. Il voler fare poesia, negando valore ad ogni regola è paragonabile al voler suonare uno strumento musicale senza conoscere alcunché di musica; certamente se ne ricaveranno suoni spontanei, di un’immediatezza e libertà senza pari, ma nessuno dirà mai che tali componimenti siano “Musica”! Rotti gli schemi metrici tradizionali, nell’illusione di una libertà assoluta, (ricordiamo le “parole in libertà” dei Futuristi), la parola che nasce dal poeta assurge a momento di verità universale. La preponderanza dell'immagine sul costrutto sintattico e sui nessi logici è derivata nella poesia del Novecento per accordo o per antitesi, in massima parte, dalla poetica di Gabriele D’Annunzio e dall’influenza prima dei Simbolisti francesi, poi dei Surrealisti.
Questa nuova poesia ha innegabilmente trovato una più accentuata sensibilità linguistica, in cui l’uso di analogie e metafore offre alla parola una particolare suggestione ed immediatezza lirica. Sulle orme di Saba, Ungaretti, Montale, Luzi, è sorta una folta schiera di epigoni, che scrivono versi alla moda del momento, ma non hanno né l’afflato, né la altissima tensione spirituale dei veri poeti.
Occorre mettere mano ad una ricostruzione organica della struttura, con ritmi musicali e metri consapevolmente usati, che sostengano dal di dentro (senza che se ne avverta il peso) il tessuto delle parole. Gioia Guarducci |