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tratti dalla rivista

 

LA DIVINA COMMEDIA

Frasi proverbiali e versi memorabili

a cura di Mario Macioce

da "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere di Ottobre 2002, Febbraio 2003, Giugno 2003 e Ottobre 2003
 

INFERNO

Canto I

... mi fa tremar le vene e i polsi.


Canto II

... qui si parrà la tua nobilitate.

Io era tra color che son sospesi

... amor mi mosse che mi fa parlare.

Temer si dèe di sole quelle cose
ch'hanno potenza di fare altrui male;
dell'altre no, ché non son paurose.


Canto III

Per me si va nella città dolente,
per me si va nell'eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e il primo amore.
Dinanzi a me, non fur cose create
se non eterne, ed io eterna duro:
lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.

... mi mise dentro alle segrete cose.

... coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.

non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

... colui
che fece per viltade il gran rifiuto.

... vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.

Caron dimonio, con occhi di bragia, ...


Canto IV

... sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

... Cesare armato con gli occhi grifagni.

Democrito, che il mondo a caso pone ...


Canto V

Ora incomincian le dolenti note ...

... che libito fe' licito in sua legge ...

Amor, che al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e il modo ancor m'offende.
Amor, che a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi vita ci spense.

... Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria ...

... soli eravamo e sanza alcun sospetto.

... ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.

... e caddi come corpo morto cade.


Canto VI

... tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto.


Canto VIII

E 'l fiorentino spirito bizzarro ...


Canto X

... con Epicuro tutti i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natìo
alla qual forse fui troppo molesto.

... dalla cintola in su tutto il vedrai.

Ond'io a lui: “Lo strazio e il grande scempio
che fecer l'Arbia colorata in rosso ...”

... ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto.


Canto XIII

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e involti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.

Io credo ch'ei credette ch'io credesse ...

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, ...

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.


Canto XV

Ed egli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto ...”

Ma quello ingrato popolo maligno,
che discese di Fiesole ab antico
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico

... m'insegnavate come l'uom s'eterna


Canto XVI

La gente nova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni!

Sempre a quel ver ch'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'ei puote,
però che sanza colpa fa vergogna


Canto XVIII

Taide è, la puttana che rispose
al drudo suo, quando disse: "Ho io grazie
grandi appo te?": "Anzi maravigliose!"
E quinci sian le nostre viste sazie.


Canto XIX

Se' tu già costì ritto, Bonifazio?

Tal mi fec' io quai son color che stanno,
per non intender ciò ch' è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!


Canto XXI

Allor mi volsi come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire,
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia il partire

ogn' uom v' è barattier, fuor che Bonturo


Canto XXII

Ahi fiera compagnia! Ma nella chiesa
coi santi, e in taverna co' ghiottoni.


Canto XXIII

E il frate: "Io udi' già dire a Bologna
del diavol vizi assai; tra i quali udi'
ch'egli è bugiardo, e padre di menzogna".


Canto XXVI

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!

"O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo gli alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi".

né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né il debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potèr dentro da me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e delli vizi umani e del valore:
ma misi me per l'alto mare aperto

"Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza."

E volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

Tre volte il fe' girar con tutte l'acque;
alla quarta levar la poppa in suso,
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
infin che il mar fu sopra noi richiuso.


Canto XXVII

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacea allor m’increbbe

ch’assolver non si può chi non si pente:
né pentére e volere insieme puossi,
per la contradizion che nol consente.


Canto XXVIII

Io vidi certo, ed ancor par ch’io ‘l veggia


Canto XXX

... Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica.


Canto XXXIII

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola ai capelli
del capo ch’egli avea di retro guasto;
poi cominciò: “Tu vuoi ch’io rinnovelli
disperato dolor che il cor mi preme

parlare e lagrimar vedrai insieme.

... Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia!

Ahi dura terra, perché non t’apristi?

... ond’io mi diedi,
già cieco a brancolar sopra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia più che il dolor, poté il digiuno.

Ahi Pisa, vituperio delle genti
del bel paese là dove il sì suona
poi che i vicini a te punir son lenti,
movasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce
sì ch’egli annieghi in te ogni persona!


Canto XXXIV

e quindi uscimmo a riveder le stelle.

 

 

PURGATORIO

Canto I

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.

Lunga la barba e di pel bianco mista

libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.


Canto II

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.

“Amor che ne la mente mi ragiona”


Canto III

o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

State contenti, umana gente, al quia
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria.

ché perder tempo a chi più sa più spiace.
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno.

biondo era e bello e di gentile aspetto

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.


Canto IV

e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!»


Canto V

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti.


Canto VI

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura …

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.


Canto VIII

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more

Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.


Canto XI

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà dal nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.


Canto XIV

…Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.

ond’hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo; e quant’ ella più ‘ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.


Canto XVI

Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?


Canto XVII

Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l’altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.


Canto XX

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.


Canto XXII

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova
ma dopo sé fa le persone dotte.

Canto XXIII

Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.


Canto XXIV

« Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore” »
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’ e’ ditta dentro vo significando ».
« O frate, issa vegg’ io », diss’ elli, « il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’ i’ odo! »


Canto XXX

conosco i segni de l’antica fiamma


Canto XXXII

ond’ el piegò come nave in fortuna,
vinta da l’onda, or da poggia, or da orza.

Canto XXXIII

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

. . . .
puro e disposto a salire alle stelle.

 

 

PARADISO


Canto I

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di lassù discende

Canto II

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.

Canto V

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

Canto VI

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

Canto VIII

E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’ una è ferma e altra va e riede,
vid’ io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti

Canto X

donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.

Canto XI

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore. (1)

nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Canto XIV

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
secondo ch’è percosso fuori o dentro

Canto XVI

Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
Oh quanto fora meglio essere vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!

Canto XVII

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo esilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te . . .


Canto XXV

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello (2)

Canto XXXIII

« Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate. »

e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente

ma non eran da ciò le proprie penne

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

 

(1) San Francesco e San Domenico

(2) cingerò la corona di poeta