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LE ORIGINI DEL VERSO ITALIANO

a cura di Gioia Guarducci

da "Il Dolce Stile Eterno" supplemento de L'Alfiere del Febbraio 2003

Con Roma imperiale si era diffusa ovunque la lingua latina, ma più che il latino classico sulla bocca delle genti risuonava la parlata popolare, riecheggiante gli antichi idiomi preesistenti alla conquista romana.
Dopo la caduta dell’impero, il linguaggio di ciascuna nazione, distaccatosi sempre più dal modello classico, viene detto “volgare”, “romano” o “romancio”. In realtà sappiamo bene che la lingua non nasce e non muore da un giorno all’altro, ma sempre si trasforma.
Noi stessi parliamo ancora “latino”, ma nella forma in cui si è mutato nel tempo.
Nell’epoca delle invasioni barbariche, la civiltà romana, con le sue tradizioni artistiche e letterarie, rimase per tutti un vivido punto di riferimento culturale.

A partire dall’XI secolo, si tentò di ricostruire una poesia universale in una forma bella e nobile, in una lingua universale, ma questi sforzi andarono nella direzione opposta e si risolsero nella fioritura di molteplici letterature in lingue “nazionali”.
Nella letteratura in lingua volgare si vede anche che la poesia fa da battistrada nel campo dell’arte, sopravanzando la prosa, che rimarrà, per moltissimo tempo ancora, relegata in ambito locale.
La diffusione della poesia in volgare, in un periodo in cui il latino era ancora molto usato, ha fatto ritenere che essa avesse un’origine popolare: in realtà la poesia medievale è “popolare” soltanto perché si rivolge a gente che non parla più correntemente il latino antico.
Questa poesia, però, rimane opera di persone colte, non svincolate dalla tradizione classica precedente, che hanno assoluta e piena coscienza della loro arte.

Nel medio evo ebbero grande diffusione “manuali di arte poetica”, con precetti riguardanti nozioni pratiche di metrica classica o di ritmica accentuativa, di stile, di linguaggio figurato e di figure retoriche.
Non bisogna dimenticare che per un cristiano colto era doverosa la conoscenza della “grammatica”, cioè delle regole della lingua e letteratura antiche, ma tale conoscenza doveva rimanere marginale, in quanto i temi profani, mitologici o le poesie d’amore, di cui la poesia antica era impregnata e il piacere che ne derivava, erano colpevoli di allontanare l’uomo dalla Religione e da Dio.
La poesia religiosa era invece ben vista e gli stessi ecclesiastici vi si cimentarono.
Poesia molto ritmica, composta da strofe di trimetri giambici, è quella scritta nel IV secolo dal vescovo di Milano, S.Ambrogio (339 d.C.-397 d.C.):

Aetèrne rèrum cònditor
noctèm dièmque quì regis
et tèmporùm das tèmpora
ut àdlevès fastìdium

Non vi fu nessuna brusca frattura, nessuna opposizione tra la letteratura latina destinata ai ceti colti e quella in volgare rivolta ai borghesi, che non masticavano più tanto bene il latino, ma solo un lento trapasso da una lingua colta ad un linguaggio più moderno e comprensibile.

La poesia antica non aveva rima e si fondava, come si sa, solo sull’alternanza di sillabe lunghe (accentate) e brevi (atone) dette piedi, perché il tempo era segnato battendo e rialzando da terra il piede.
Quando scomparve ogni differenza tra la pronuncia della vocale breve e della vocale lunga (pensiamo alla diversità tra la nostra “e” della parola sole ed “ee” della parola idee), la poesia, che da sempre si era fondata sulla misura quantitativa, finì per soccombere alla metrica ritmica, regolata dagli accenti alla parola e dal numero delle sillabe.
Il poeta cominciò allora ad imitare gli schemi classici alla buona, così come sentiva ad orecchio gli accenti nella lettura. Questo non avvenne da un giorno all’altro, per secoli, infatti, convissero poeti più colti, che seguitarono a versificare in latino letterario, e poeti che, pur scrivendo in lingua latina, non rispettarono più le regole classiche, ma introdussero nuove licenze metriche e regole grossolane.
I chierici vaganti, i goliardi, i giullari, i trovatori, che poetavano secondo la ritmica accentuativa, avevano ricevuto dalle scuole una forte impronta della poesia classica preesistente.

Su modello della “Antologia Latina” del VII /VIII sec., che raccoglieva liriche in lingua tardo-latina ed era usata nell’ambito della tradizione accademica medievale come manuale di lettura e di studio, possiamo trovare, nel primo medio evo, sillogi poetiche di poeti franco-provenzali e italiani, che comprendevano sia poesie in forma metrica latina che poesie basate solo sul ritmo accentuativo.

Ma torniamo all’origine dei versi.
Se guardiamo al metro latino più popolare fin dai tempi della Repubblica, il tetrametro trocaico catalettico, usato moltissimo nei canti militari, vediamo che esso ha uno schema molto orecchiabile, che facilmente si prestava a scivolare in poesia basata sull’accento ritmico: “Ècce Caésar núnc triùmphat, quì subégit Gállias.”
Con il tempo dell’unità del tetrametro non restò che il ricordo e questo verso venne letto come spezzato in due versi più brevi: un ottonario piano e un senario sdrucciolo.

Riguardo all’endecasillabo, verso principe della poesia italiana, noi non possediamo, purtroppo, elementi certi per dare una risposta univoca, perché bisognerebbe stabilire se le somiglianze non siano da ritenere che semplici coincidenze, prive di realtà storica.
Probabilmente le nostre considerazioni, data la scarsità di documenti oggettivi a disposizione, sono destinate a rimanere solo fragili congetture.
Possiamo qui riportare le ipotesi più accreditate. Alcuni studiosi pensano che esso possa essere derivato dal verso provenzale dacasyllabe, a sua volta nato dall’ esametro ritmico della tarda latinità.* Altri invece credono che abbia avuto origine direttamente dal saturnio o dal saffico, versi latini dal ritmo molto cadenzato. Altri ancora ritengono che sia nato dall’unione di un settenario con un quinario o di un quinario con un settenario.

* In studi recenti, il celebre indovinello veronese (uno dei primi documenti in volgare dell’VIII / IX secolo):

Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio teneba, negro semen seminaba.
è stato riconosciuto composto di due esametri ritmici caudati, versi molto diffusi nei canti tardo latini d’epoca longobarda.

La grossa novità della poesia tardo-latina e romanza è stata, invece, la rima, forma sconosciuta alla poesia latina classica.
Nella poesia religiosa dei primi secoli dell’era cristiana, molto spazio ebbero le preghiere, gli inni, destinati ad essere cantati dai fedeli. Si pensa perciò che la rima sia sorta per facilitare la memorizzazione dei testi sacri.
Troviamo composizioni di tetrametri a due a due, a tre a tre, in quartine con la rima o senza rima, con assonanze o consonanze.

Tetrametri latini molto ritmici rimati sono anche i versi di questa poesia storico-narrativa del secolo XI (1088):

Inclitorum Pisanorum scripturus historiam,
antiquorum Romanorum renoso memoriam:
nam extendit modo Pisa laudem admirabilem,
quam olim recepit Roma vincendo Carthaginem.

Nel XII secolo Alano da Lilla scrisse versi, che (pur mantenendo l’impianto classico di due tretapodie trocaiche seguite da un dimetro trocaico catalettico) hanno una costruzione metrica sillabica accentuativa con consonanza o rima:

Omnis mundi creatura
quasi liber et pictura
nobis est in speculum;

nostrae vitae, nostrae mortis,
nostri status, nostrae sortis
fidele signaculum

Così, nel XII secolo, i Goliardi, formatisi negli studi delle nuove Università medievali, componevano poesie latine adatte al canto, con alla base la metrica classica, ma già tendenti verso gli accenti e le rime:

Vinum bonum et suave,
bonis bonus pravi prave,
cunctis dulcis sapor, ave,
mundana laetitia !

Ave, felix creatura
quam produxit vitis pura,
omnis mensa fit secura
in tua praesentia

Nella poesia giullaresca vediamo che la rima ha prevalenza sulla misura metrica, nel senso che il numero convenzionale delle sillabe di un verso (di norma settenario o ottonario) può oscillare di una o due sillabe (fino ad averne talvolta nove o dieci); come nel ritmo Cassinese del XII secolo:

“Una cosa me dicate
d’essa bostra dignitate
poi ke’n tale desdutto state,
quale bita bui menate?
que bibande manicate?
Abete bibande cuscì amorose
como queste nostre saporose?”

o nel “Detto del gatto lupesco” del XIII secolo:

E andava a capo chino.
Allora uscío fuor del cammino
ed entrai in uno sentieri
ed incontrai duo cavalieri,
de la corte de lo re Artù
ke mi dissero: “Ki ‘sse’ tu?”.

Senza sbavature sono invece le strofe di ottonari monorimi del canto Dies Irae, attribuito a Tommaso da Celano (XIII secolo):

Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sibylla.
Quantus tremor est futurus
quando iudex est venturus
cuncta stricte discussurus !

Nei tetrametri latini di S. Tommaso d’Aquino (XIII secolo) troviamo con regolarità la rima interna a metà verso e l’assonanza o la consonanza nelle parole sdrucciole a fine verso:

Pange , lingua, gloriosi / corporis mysterium
sanguinique pretiosi / quem in mundi Pretium
fructus ventris generosi, / rex effudit gentium.

Questo sistema di versificazione portò, col tempo, a spezzare il verso lungo in due versi più corti, cioè in un ottonario piano e in un senario sdrucciolo e alla creazione di strofe legate tra loro dal ritmo sillabico e dalla rima. Nasceva così, agli albori della lingua volgare, una poesia nuova fondata non più sulla metrica quantitativa, ma sul numero delle sillabe, sugli accenti e sulla rima. Questa nuova tecnica poetica, basata sulla musicalità e sull’armonia, rimane ancora oggi alla radice della migliore poesia italiana.

 

Gioia Guarducci